Certamente è necessario mantenere attenzione e sensibilità verso le persone la cui vita è afflitta dalla malattia o dalla disabilità.
Ma la risposta di una società pienamente umana, non può essere quella di autorizzare la “morte su richiesta”. Sembra proprio che la strada imboccata sul fine vita sia una sbrigativa ed economica scorciatoia più comoda e pratica a confronto di un investimento in termini di risorse umane, assistenziali, sollievo dalla sofferenza, di tempo dedicato alla cura nella premura. C’è un legame misterioso tra sapersi e sentirsi amati e desiderio di vita; così come tra sapersi e sentirsi disprezzati e rifiutati e desiderio di morte. In mezzo c’è la libertà, anch’essa un mistero profondamente umano, ricchissimo e denso, legato alla verità e all’amore. Rivendicare il “diritto al suicidio assistito” e all’eutanasia” è la morte del diritto, della relazione di cura, della medicina. Proprio sul terreno della fragilità che richiederebbe maggiore cura, condivisione e solidarietà si registra la rottura del più elementare e basilare dei vincoli: quello che riconosce sempre il valore dell’altro e ne custodisce l’esistenza.
Così si impoveriscono le relazioni interpersonali e si modella una società di individui posti uno accanto all’altro senza solidi legami reciproci. Forse, invece che di “autodeterminazione”, bisognerebbe parlare di autoesclusione per eterodeterminazione. “Amare fino alla fine” dovrebbe essere il faro che illumina la periferia del “fine vita”, perché siamo tutti responsabili gli uni degli altri, perché la vita umana è un valore in sé, perché la morte si accetta e non si cagiona, perché solo così la convivenza è davvero civile.
Marina Casini
President MPV